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Una magnifica opportunità…

Alcune riflessioni su migrazione, capitalismo e rivolte sociali

I. INTRODUZIONE

Questo testo nasce da alcune domande pratiche collegate al ruolo di un incontro ECOFIN (Consiglio di Economia e Finanza, che si riunirà dal 30 settembre al 1 ottobre) e di una manifestazione convocata da un sindacato europeo che avrà luogo il 29 settembre, durante il No Border Camp di Bruxelles (dal 25 settembre al 3 ottobre). Nel corso di vari dibattiti abbiamo discusso la nostra posizione rispetto a questo vertice. Le nostre riflessioni si sono rapidamente mosse verso “LA” crisi attuale e i suoi effetti sociali e politici, allo stesso tempo verso  l’aumento delle politiche e dei comportamenti razzisti, verso le rivolte sociali e i movimenti di massa. Le riflessioni su questi effetti costituiscono la ragione principale di questo testo, sullo sfondo della settimana a Bruxelles a fine settembre. Da un punto di vista radicale contro le frontiere e per la libertà di movimento proponiamo qui alcune idee sul “movimento No Border”, sulle relazioni tra le politiche economiche e anti-immigrazione europee e sull’attuale propagarsi delle rivolte sociali. Spunti che sperano di portare a riflessioni, discussioni… e azioni.

II. A PROPOSITO DEI NOSTRI LIMITI

Per cominciare abbiamo riflettuto su come gli “attivisti No Border”, nel senso più vasto, mettono solitamente in relazione le politiche migratorie con quelle economiche. In questi discorsi possiamo distinguere due poli principali, tra i quali si stanno facendo spazio una varietà di posizioni e dibattiti contro le frontiere.

Due correnti

Da un lato si trova la corrente radicale, che si definisce sulla base di un discorso per la totale libertà di movimento e per la presa di posizione contro le frontiere, contro lo stato e il capitalismo. Questo discorso, spesso collegato ad azioni dirette, vuole contestualizzare la lotta contro le politiche anti-immigrazione in una critica al sistema capitalistico. Ciononostante la forma in cui questo discorso viene espresso è ridotta a un totale rifiuto di tutte le strutture capitalistiche, il che raggiunge solamente le persone già schierate. Dall’altro lato si trova la corrente moderata, che pone l’enfasi sul processo di regolarizzazione dei migranti e sull’opposizione ai centri di detenzione. Questo discorso solitamente arriva a un binario morto di fronte alla questione di tracciare un collegamento fra le strutture economiche e politiche in cui le politiche anti-immigrazione sono inserite.

Paradosso

Sappiamo che questi discorsi differenti condividono il concentrarsi principalmente sulla repressione contro i migranti. L’insistenza su questo tema è comprensibile – si tratta dell’aspetto più vergognoso della situazione dei migranti, ciò che loro stessi considerano come prioritario: uscire dal circolo della repressione e vivere una vita “normale”. Nonostante questo pensiamo che esista una debolezza in qualche modo “scelta”, un aspetto unidimensionale dei discorsi no border. La gestione capitalista del lavoro dei migranti e i suoi effetti sulle questioni economiche e sui diritti sociali non è quasi mai stata utilizzata come argomento centrale nella lotta alle frontiere e per la libertà di movimento. Inoltre possiamo affermare che, se si esclude la Frontex, gli organismi del cosiddetto “potere europeo” sono stati complessivamente risparmiati dalle critiche e dalle azioni del movimento No Border, nonostante la determinante importanza organizzativa degli stessi rispetto alla gestione dei movimenti migratori.

Sottovalutare questi aspetti costituisce dal nostro punto di vista un paradosso: siamo in molti a pensare che la gestione delle migrazioni rivela la vera faccia del capitalismo, e ci permette di guardare attraverso le future tendenze nell’evoluzione delle nostre società (militarizzazione delle frontiere e della società in generale, sviluppo delle tecnologie di controllo, precarizzazione del lavoro, diritti sociali e distruzione della libertà d’espressione…). Nonostante questo accade di rado che, partendo dalla questione della migrazione, siamo in grado di sviluppare discorsi o azioni che riguardino altri aspetti della società.

III. MIGRAZIONI NELLO SVILUPPO DELL’EUROPA ECONOMICA E SECURITARIA

La migrazione esiste ovunque, a livello internazionale o locale; collegata a guerre, lavoro o studi; come risultato dei cambiamenti climatici o di incontri. Molti di noi non parlano la lingua dei propri nonni, non vivono dove vivevano i nostri genitori, e i nostri movimenti non si arresteranno. “Migranti” o “nativi”, le uniche identità impresse su di noi, sono stampate dallo stato sulla carta o dalla pubblicità e dalla tv nelle nostre menti; si tratta di identità che ci sono estranee. La classificazione tra “migranti” e “nativi” non ha più senso. Comunque, coloro che vengono comunemente chiamati “sans papiers” sono migranti particolari – i loro diritti non esistono, sono costretti alla clandestinità e rappresentano la figura dello “straniero” definitivo. Il sistema capitalista li rende marginali e applica su di loro politiche specifiche. Queste politiche e il loro collegamento con “il resto della società” è ciò che ci interessa analizzare.

Lo sviluppo delle politiche migratorie europee dovrebbe essere analizzato nel contesto dello sviluppo dell’Unione Europea, nella misura in cui si tratta del processo di un sistema economico che sta aprendo il proprio mercato del lavoro. Osservando la storia dell’UE e il processo di ingrandimento che ha avuto luogo nel corso dei suoi 60 anni di vita possiamo notare che la gestione capitalista dei movimenti migratori è direttamente collegata alla situazione economica. Periodi di crisi o di crescita economica possono trasformare radicalmente le politiche migratorie, cosa che a sua volta può avere effetti enormi sulle politiche economiche e securitarie.

Le onde della migrazione

Nel secolo scorso, dopo la seconda guerra mondiale, la migrazione legata al lavoro ha cominciato ad intensificarsi. La prima ondata migratoria importante, negli anni ‘50 e ’60, era costituita da migrazione “industriale”, in particolare dall’Europa meridionale e da altri paesi mediterranei verso i paesi del nord. Trenta anni più tardi la caduta della “cortina di ferro” provocò una nuova ondata migratoria proveniente dall’Est, attirata dall’immagine della “vecchia Europa sicura”. Contemporaneamente a questo processo il numero dei non-europei che tentavano di raggiungere l’Europa aumentava di anno in anno.

Possiamo evidenziare una differenza fondamentale fra le politiche migratorie degli anni ’50 e quelle dagli anni ’80 in poi. In principio le industrie e le miniere richiedevano manodopera consistente e a basso costo, il che implicava una migrazione relativamente “aperta”. Successivamente la de-industrializzazione, la fine della piena occupazione e l’aumento della disoccupazione di massa ha determinato una drastica restrizione delle condizioni migratorie. Questa differenza nella gestione dei movimenti migratori mostra gli interessi economici come il criterio principale utilizzato dal sistema capitalista per determinare le proprie politiche migratorie.

Dall’architettura securitaria…

Oggi, nel contesto dell’Europa allargata, l’architettura del sistema istituzionale europeo ha raggiunto una nuova dimensione ed un livello più elevato in termini di cooperazione tra stati (Dublino II) e procedure di sicurezza. Dal collasso dell’Unione Sovietica le frontiere del “progetto Europa” si sono espanse, e l’Unione (Europea, ndt) si è messa all’opera per realizzare un’imponente architettura securitaria, basata sullo sviluppo di nuove tecnologie e su enormi possibilità finanziarie. Durante il primo passaggio questo ha significato la costruzione di centri di detenzione e l’aumento di controllo sociale a livello nazionale. In secondo luogo paesi come Italia, Spagna e Grecia hanno cominciato a costruire sempre più meccanismi di difesa contro l’immigrazione, con l’aiuto dell’agenzia europea di migrazione Frontex. Questi paesi costituiscono la barriera interna fondamentale contro la famigerata “invasione dell’Europa”. Infine si assiste ad una esternalizzazione dei confini ai paesi mediterranei come Libia, Tunisia e Marocco in cui fondi europei vengono utilizzati per costruire centri di detenzione e per incrementare il controllo delle frontiere. Le morti ai confini nel Mar Mediterraneo e le condizioni dei centri di detenzione come quello di Pagani a Lesbo non sono prodotte dagli interessi di una singola nazione, ma sono parte delle strategie economiche e migratorie europee.

…all’architettura del mercato del lavoro

Parallelamente all’aumento di repressione e militarizzazione dei confini assistiamo alla ricostruzione del mercato del lavoro. La parte difficile per i governi è mantenere l’equilibrio che permetta un controllo effettivo di questo mercato. Dal punto di vista economico i governi utilizzano l’immigrazione in due modi differenti: da un lato tentano di controllare l’immigrazione per rispondere a bisogni economici; si tratta di un’immigrazione limitata e specializzata. Dall’altro lato usano l’immigrazione per fomentare la competizione fra i lavoratori, e di conseguenza limitare le istanze sociali e precarizzare il mercato del lavoro.

Selezione di permessi per il lavoro (in funzione ai bisogni di mercato), flessibilità (lavoro nero, lavoro part-time), riduzioni agli stipendi, attacchi ai diritti sociali, disintegrazione delle pensioni, costante aumento degli affitti. Tutte queste dinamiche possono solo essere osservate come la parificazione delle condizioni di lavoro dei lavoratori locali alla situazione che i migranti conoscono già da molto tempo, con la clandestinità come bonus speciale. E’ questo l’obiettivo dei governi e delle istituzioni europee. In principio le condizioni lavorative e le pratiche sociali vengono applicate ai migranti, legittimando questo particolare status con il fatto che si tratta di stranieri privi di diritti. In un secondo momento le tecniche di gestione dell’immigrazione verranno applicate a tutta la popolazione. Naturalmente alla base di queste dinamiche sta l’argomento diffuso che vuole gli stranieri “improduttivi e approfittatori di benefici”, tacciati come responsabili di tutti i disastri economici e sociali delle nostre società.

UE: la scalata

Queste strategie di controllo della migrazione e della popolazione mostrano dove sta andando l’Europa: verso una politica migratoria stabile, misure sociali rigide (o meno, a seconda della situazione dell’economia interna) ed un nuovo euronazionalismo promosso per conquistare la propria posizione di attore globale nel mercato globale, con Germania e Francia in testa. L’obiettivo a lungo termine è liberalizzare il mercato e smantellare lo “stato sociale”, e sopravvivere alla competizione con i “signori dello sfruttamento” USA e Cina. Questa nuova ideologia di euronazionalismo si basa sullo sviluppo di una coscienza storica europea successiva alla seconda guerra mondiale. La storia è stata riletta per ridefinire una nuova Europa, che ha imparato dalle due guerre mondiali e che si muove verso la cooperazione “pacifica” tra stati sul piano economico e politico. Questa teoria si dimentica della guerra sociale in atto, dello sfruttamento di lavoratori e migranti, e delle guerre “umanitarie” in atto così come di altre operazioni di “peacekeeping”, perpetrate tramite la NATO o meno, da parte di vari paesi europei in Serbia, Afghanistan, Iraq o Somalia.

Gli anni passati hanno mostrato come questo ambizioso progetto sia assai difficile da realizzare. A livello politico il rifiuto della Costituzione Europea da parte di alcuni stati membri ha danneggiato il “sogno europeo”. A livello economico la crisi finanziaria, cominciata al principio del nuovo secolo, ha arrestato la crescita economica mostrando ancora una volta gli effetti della competizione mondiale, della sovrapproduzione e della speculazione. In questo periodo di crisi e (per il momento) di fallimento nel perseguire tali obiettivi, una delle principali domande è: come proveranno i governi-stato a riparare la gestione della “minaccia finanziaria”?

IV. PAURA E PATRIOTTISMO AI TEMPI DELLA CRISI

Sono passati due anni da quando le banche e i mercati azionari hanno cominciato a collassare. Miliardi di euro sono stati sperperati; le banche prescelte sono state rimesse in piedi con incredibili profitti; altre rimangono instabili; il crollo dei mercati azionari e dell’euro continua. Presto la crisi del sistema finanziario è divenuta crisi degli stati. Dopo aver tentato di tutto per salvare il sistema finanziario i governi cominciano a “far pagare la crisi” alle persone: Grecia, Romania, Spagna, Gran Bretagna… Questa ennesima crisi del capitalismo è, al solito, un’opportunità meravigliosa per i governi e per le istituzioni internazionali: i piani di austerità, per i quali si è votato o si voterà, sono veri e propri piani di distruzione sociale.

Piani di austerità come sviluppo logico

La prima occasione per realizzare un atto reale verso la “gestione della crisi europea”, dopo l’intervento del FMI in Romania, è stata la crisi dovuta al debito di stato in Grecia. Il capitale internazionale, nella forma di UE, FMI e stato greco tenta di trasformare il paese nel campo per un esperimento sociale con cui provare una nuova dottrina-shock. Molti diritti sociali, difesi dai lavoratori da tre decadi a questa parte, vengono aboliti nel giro di due anni. Il primo pacchetto di provvedimenti varati dal Parlamento greco il 6 maggio ci mostrano in che modo: tagli ai salari fino al 30%, congelamento di stipendi e pensioni nel settore pubblico. A tali provvedimenti su stipendi e pensioni seguono un aumento dell’imposta sul valore aggiunto e tasse speciali su tabacco, alcol e scommesse. Alcuni cambiamenti si verificheranno anche nel sistema sociale: tagli alle pensioni e ai sussidi di disoccupazione, smantellamento della sicurezza sociale. La successiva ondata di provvedimenti è stata preparata per l’anno prossimo, sotto stretta sorveglianza della “commissione di controllo”. Gli effetti delle politiche  di austerità stanno cominciando a produrre i loro effetti: tagli massivi all’occupazione, sempre più posti di lavoro part-time e creazione di impiego temporaneo di massa.

Infine i piani di austerità imposti nello scenario de “LA” crisi sono sicuramente un nuovo passo nel processo di precarizzazione del lavoro, nell’applicazione delle tecniche di gestione dell’immigrazione come mezzo di gestione della popolazione. Ben lontane dall’essere politiche  straordinarie, queste riforme anti-sociali sono la logica continuazione di dinamiche che cominciarono con la creazione e lo sviluppo del “progetto” europeo. La specificità di tali provvedimenti va ricercata nella loro particolare violenza sociale; nella contestualizzazione di questi all’interno di un quadro politico sempre più razzista basato sulla sicurezza; e all’interno di un sistema politico fondato sulla gestione della paura.

Politiche della paura e patriottismo

Se consideriamo i discorsi promossi dai governi possiamo affermare che questi giustificano la  gestione della crisi con argomentazioni dettate dalla paura; paura di cui lo straniero è la principale causa. La gestione della paura come meccanismo atto alla trasformazione sociale opera in maniere diverse. Una è la creazione di paura fisica, basata sulla figura di giovani migranti delinquenti, volta a legittimare lo sviluppo delle tecniche di controllo (presenza poliziesca, telecamere, archiviazione di dati…) e delle strutture di repressione (costruzione di carceri e centri di detenzione, leggi sulla “libertà”, giustizia elastica…). Questa paura sussume varie forme simboliche, basate specificamente su “differenze inconciliabili” tra Islam e “stili di vita occidentali”. Ecco dunque che le controversie su presunte abitudini riguardo la maniera di vestire (velo), la sessualità (poligamia), il cibo (carne hallal e agnelli sacrificali), non sono altro che manipolazioni simboliche create per dare l’impressione di una minaccia che incombe sulle tradizioni occidentali, e della superiorità di queste sugli arcaici costumi musulmani. Inoltre è in corso un processo di creazione di paura economica, basata sulla scarsezza di lavoro e sulla figura del migrante lavoratore, volta all’accettazione finale della precarizzazione del lavoro.

Queste politiche della paura si articolano naturalmente attorno al concetto di crisi. Che servano ad investire miliardi nelle banche o per imporre riforme anti-sociali, i discorsi dei governi rimangono gli stessi: “Nel contesto della crisi sono necessari alcuni sacrifici per salvare il nostro sistema”. Questo appello al patriottismo economico è anche appello al patriottismo culturale, in un’ottica basata sull’identità nazionale, per una società minacciata dal pericolo dell’immigrazione. In questo modo i governi si presentano come difensori degli elettori, e capitalizzano la rabbia popolare dovuta alle ingiustizie capitalistiche contro la figura del migrante, nemico definitivo sul piano economico, fisico o culturale, sia dentro che fuori. Questo processo vuole nascondere che le conseguenze della crisi sono le stesse per i “nativi” e per i “migranti”: un peggioramento delle condizioni di vita ed il controllo intensificato su tutti gli individui improduttivi (lavoratori licenziati, disoccupati privati dei sussidi, migranti reclusi ed espulsi).

Dalla xenofobia al cosmopolitismo?

Da un punto di vista sociale possiamo prevedere che le attuali riforme produrranno effetti che vadano verso due principali direzioni: da un lato una messa in discussione delle istituzioni e forse addirittura del sistema capitalistico; dall’altro un crollo identitario ed un’affermazione di sentimenti e discorsi xenofobi. Queste due direzioni potranno sembrare in contraddizione, ma in realtà sono spesso complementari. In forma organizzata sono espresse dall’avanzamento dei partiti di destra e delle questioni razziste in seno al lavoro di alcuni sindacati. In forma individuale la mescolanza di sentimenti anti-istituzionali e anti-immigrazione si sta sviluppando in maniera allarmante. Qui sta la sfida centrale per il movimento No Border, ma anche il principale pericolo: nel rischio del rafforzamento e dell’affermazione di sentimenti xenofobi durevoli, nel rischio del ritorno a un’Europa nazionale e nazionalista, sempre più chiusa e razzista.

Tale mescolanza di sentimenti riflette una realtà che il movimento No Border non può non affrontare: nelle nostre società l’immigrazione e la maniera in cui essa viene gestita rappresenta spesso un punto di rottura, la cristallizzazione del dibattito che vorrebbe finalmente decostruire il rifiuto dell’altro. Questo avviene a livello urbanistico (creazione di banlieues e ghetti), a livello culturale (interdizione del velo), e a livello economico (accettazione della competizione sul lavoro su base nazionale, ma senza i migranti). E’ ancora valido affermare che migrazioni  e contaminazioni fra i popoli si sono sempre verificate; oggi questi fenomeni raggiungono un tale livello che non possono essere lasciati da parte in una presa di posizione politica dignitosa.

Il numero di esseri umani sulla terra; le disuguaglianze sociali e internazionali create dal sistema capitalista; la crescita di enormi megalopoli; lo sviluppo dei mezzi di trasporto; il fascino della presunta società dei comfort e le tecnologie di propaganda; tutto questo contribuisce a fomentare le migrazioni e a riaffermare le disuguaglianze, che di ritorno stanno generando tensioni. Partendo da questo contesto, o piuttosto al di fuori di esso, in che modo è possibile sviluppare città cosmopolite e ottenere la coabitazione pacifica e fluida di più culture e stili di vita differenti? La domanda rimane aperta…

V. MOVIMENTI SOCIALI E PROSPETTIVE

Qualcuno possiede risposte a questa domanda. Dove noi promuoviamo il cosmopolitismo, i governi giocano con le tensioni tra le varie comunità e fanno leva sulla paura verso l’altro. Nonostante questo cominciamo ad assistere allo sviluppo di movimenti sociali che si oppongono alle politiche economiche dei governi, ad esempio in Romania e Grecia. In Grecia un movimento eterogeneo con vari obiettivi politici ha protestato contro i piani di austerità di governo, FMI e UE. Il maggiore successo di tale mobilitazione, principalmente controllata dagli organismi socialdemocratici, è avvenuto il 5 maggio quando centinaia di migliaia di persone  da tutta la Grecia hanno preso parte alle manifestazioni più partecipate dalla fine della dittatura greca nel 1974. Impiegati pubblici, lavoratori privati, anarchici, studenti e anche migranti hanno partecipato all’assalto del parlamento. Nel corso degli attacchi al parlamento un messaggio scioccante ha fatto il giro dei media generalisti: tre persone hanno perso la vita in un attacco a fuoco alla Marfin Bank. Questo evento ha paralizzato il movimento, e il giorno seguente il parlamento ha potuto votare tranquillamente il primo pacchetto di provvedimenti. In tutta la Grecia hanno avuto luogo discussioni, nei circoli anarchici e fuori di essi, a proposito delle pratiche di militanza e sull’eterogeneità del movimento. La giornata del 5 maggio ha mostrato che cosa è possibile per un movimento sociale, ma anche come un movimento può risultare paralizzato in un periodo in cui realizzare cambiamenti sociali radicali è possibile… Fare predizioni al momento è difficile, ma una cosa è certa: il governo greco continuerà a promuovere le misure di austerità, e probabilmente dovrà affrontare nuove proteste. In una prospettiva globale potremmo affermare che negli ultimi anni i movimenti sociali europei hanno spesso dimostrato la tendenza a rimanere chiusi in una logica nazionale di difesa dei diritti già esistenti, il che rende difficile per questi movimenti espandere la propria critica oltre l’opposizione a una particolare riforma; verso la considerazione più ampia di altre soluzioni, diverse da quelle legate al contesto storico dello stato-nazione. Si tratta realmente di una delle maggiori sfide per il movimento greco: l’abbandono delle prospettive nazionalmente orientate, verso la speranza di una riforma democratica del sistema.

Trovare l’aspetto comune per distruggere le identità nazionali

Per far sì che le lotte sociali abbandonino le proprie identità nazionali è importante abbattere l’isolamento del movimento No Border, per tessere rapporti con i protagonisti delle lotte in corso. Ottenere questo risultato implica evidenziare la gestione delle migrazioni nei luoghi dove gli effetti della crisi vengono percepiti e discussi: negli ambiti di discussione delle lotte (assemblee, pubblicazioni, siti, occupazioni e sindacati) e nei posti di lavoro e spazi abitativi (periferie, scuole, università, aziende). Da questo punto di vista esistono alcune verità che vale sempre la pena ricordare: per prima cosa, che le migrazioni sono sempre esistite e sempre esisteranno. Il progetto che intende fermarle produrrà solo pratiche “barbare e inumane”, incapace di contenere i movimenti migratori. Inoltre è ovvio che neppure deportando tutti i sans-papiers si ricreerà l’occupazione né si alzeranno gli stipendi. La disoccupazione, così come i tagli agli stipendi, non sono mai l’effetto della presenza di migranti; essi sono parte integrante del sistema capitalista. In altre parole i movimenti di opposizione alle riforme anti-sociali europee non guadagneranno nulla dall’opposizione contro i migranti. Al contrario, trovare punti comuni fra “nativi” e “migranti”, riuscire a intessere relazioni fra tutti i lavoratori e i disoccupati, con o senza documenti, nell’ambito dello stesso processo, permetterà la creazione di discorsi ed azioni comuni.

Durante il movimento francese “anti-CPE” (contratto di primo impiego, ndt) che ha lavorato in varie città, sono state create connessioni fra studenti, lavoratori, migranti e abitanti delle banlieues. Queste connessioni sono state abilmente rappresentate nelle posizioni espresse dalle assemblee degli studenti contro la legge CESEDA sull’immigrazione, ma anche nelle strade, con azioni dirette e scontri con la polizia. Naturalmente le direzioni sindacali, i media e i politici si sono concentrati solo sulle critiche al CPE e sui raid dei giovani delle periferie sui manifestanti a Parigi. Costoro sanno che cosa hanno da perdere dalla connessione tra i giovani delle banlieues e i movimenti di resistenza: gli eventi del dicembre 2008 in Grecia e il vertice NATO a Strasburgo lo hanno dimostrato. D’altra parte, noi sappiamo che cosa abbiamo da guadagnare: un ampliamento della critica sociale e teorica, e un incremento di potere. Rispetto a ciò, una delle maggiori sfide è far sì che i movimenti sociali prendano posizione e agiscano rispetto al tema dell’immigrazione.

Far sì che le lotte tengano conto della situazione dei migranti implica che i temi dell’immigrazione e dell’antirazzismo siano parte integrante delle lotte. Da questo punto di vista è necessario che i protagonisti delle battaglie assumano la propria identità mentre si impegnano nei movimenti contro i piani di austerità; è necessario creare reti di solidarietà reale durante la lotta. E’ nel quadro di un’opposizione attiva e radicale al sistema capitalista che possono stringersi legami tra coloro che lottano e che mettono in discussione tale sistema. Se tali legami possono nascere nell’ambito dei movimenti più ampi possono anche svilupparsi in maniera autonoma con azioni che puntano a obiettivi legati al capitalismo e alla crisi, che partano da posizioni antirazziste. Obiettivi come le lobby finanziarie o del lavoro, le istituzioni economiche e governative, le banche o il vertice europeo dei ministri della finanza… Si tratta assolutamente di mettere in pratica l’idea per la quale una profonda trasformazione delle politiche migratorie può avvenire solamente tramite la messa in discussione del sistema capitalista in cui tali politiche vengono applicate.

Nella volontà di ampliare le prospettive del movimento No Border e dei movimenti contro i piani di austerità, nell’ottica di incrementare il nostro potere ci incontreremo a Bruxelles durante il No Border Camp. Bruxelles infatti dà appuntamento allo stesso tempo alle principali istituzioni europee, a centinaia di lobby, gruppi finanziari e consigli direttivi di multinazionali, ai palazzi di governo e a importanti quartieri di migranti, che sono vividi esempi di gentrification e di tanto in tanto di rivolte. Questa concentrazione di istituzioni economiche, finanziarie, politiche ed anti-immigrazione rappresenta per noi una buona opportunità per mostrare la nostra forza e la nostra presenza, per portare i nostri temi sul piano pubblico e per prendere parte alla contestazione del mondo capitalista utilizzando una varietà di forme di azione.

Enjoy Brussels!